Dio dei vivi, amante della vita (32a Domenica per annum)

Ci avviciniamo ormai al termine dell’anno liturgico e alla conclusione della lunga serie delle domeniche del tempo ordinario nelle quali abbiamo letto il Vangelo di Luca che, nella parte che lo distingue dai Vangeli di Marco e di Matteo, ci guida, al seguito di Gesù, nel viaggio verso Gerusalemme, dove avviene il suo “esodo”, la sua partenza verso il Padre. Nella domenica XXXII ci è proposto il brano di Lc. 20, 27-38: ormai siamo giunti a Gerusalemme, nel Tempio dove si concentra la attività di Gesù, il suo messaggio finale, il “discorso escatologico”. Luca descrive i capi dei sacerdoti e gli scribi che cercano di eliminare Gesù perché sono perplessi e diffidenti del suo insegnamento, ma ne sono impediti per l’entusiasmo del popolo per lui: così Luca prepara il suo lettore all’immagine positiva che darà del popolo nel racconto della Passione.

Il brano che oggi leggiamo (Lc 20,27-38), si presenta come una disputa scolastica tra le diverse tendenze del pensiero ebraico e forse ancora vive all’interno della comunità a cui Luca si rivolge, ma contiene un pensiero e un messaggio forte di Gesù per i suoi discepoli di ogni tempo. Si tratta di una disputa sulla risurrezione generata da una domanda di alcuni Sadducei: certamente la risposta di Gesù come è riportata da Luca, suppone la fede nella risurrezione di Gesù che è alla base della fede cristiana. Leggere questo brano del Vangelo, che, è bene sottolinearlo, presenta alcune difficoltà di interpretazione, in questa domenica, è occasione per ciascuno di noi per fermarci e chiederci che cosa pensiamo noi della risurrezione.

Dunque, dice il Vangelo, “gli si avvicinarono alcuni Sadducei i quali dicono che non c’è la risurrezione”. Questa è l’unica volta che Luca nomina i Sadducei nel Vangelo, che poi ritornano negli Atti degli Apostoli: si tratta, secondo Giuseppe Flavio, di una delle “scuole filosofiche” esistenti in seno al giudaismo, che riconosce autorità alla sola Scrittura e rifiuta la tradizione orale. Mentre i Farisei, se pure in modalità diverse, credono nella risurrezione, i Sadducei ritengono che l’al di là della morte di ogni persona umana sia assicurata dalla continuità e dalla sopravvivenza delle generazioni, unicamente attraverso il succedersi della procreazione per mezzo del matrimonio. Per questo per i Sadducei è strettamente necessario il matrimonio, perché solo attraverso questa via è assicurata la continua sopravvivenza dell’umanità, ed è in questa luce che essi spiegano la legge del levirato che essi attribuiscono a Mosè. I Sadducei quindi rivolgendosi a Gesù intendono, proprio fondandosi sull’autorità di Mosè, negare la risurrezione, deridendo coloro che la sostengono. Essi lo chiamano “Maestro”: avra’ il coraggio Gesù di contraddire Mosè? E con quale motivazione il “Maestro” potrà non schierarsi con gli “anti-dicenti” che c’è la risurrezione? La risposta di Gesù si svolge in due momenti: anzitutto dice il suo pensiero sulla risurrezione e poi fa riferimento all’autorità mosaica.

Dunque dice Gesù: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni di quel mondo e della risurrezione dei morti, non prendono né moglie né marito; infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio”. Gesù non rimane sul piano polemico dei suoi interlocutori ma espone il suo insegnamento con un colpo d’ala che lo libera dai condizionamenti con cui vorrebbero legarlo: e Gesù apre orizzonti nuovi per una vita che non è la continuazione della vita di “questo mondo”, ma è la novità di cui egli solo può parlare perché è la manifestazione della propria esperienza di Figlio di Dio. Per comprendere adeguatamente il senso della Parola rivelatrice di Gesù, occorrerebbe confrontarla con testi corrispondenti di S.Paolo e di S.Giovanni: la risurrezione non è la riproduzione al di là della morte della stessa vita generata “in questo mondo” mediante il matrimonio. Gesù parla di “quel mondo” che è per quelli che “ne sono giudicati degni”: il participio passivo indica una azione di Dio che giudica coloro che ne sono degni, e tutto il Vangelo ci ha detto che il modo di Dio di valutare capovolge quello della razionalità umana (“innalza i poveri e abbassa i potenti”). Gesù parla del mondo “della risurrezione dai morti”: è il mondo di una vita che non è quella assicurata dalla continuità della procreazione mediate il matrimonio, ma che nasce dalla “risurrezione dai morti”, cioè che oltrepassa la vita di “questo mondo” perché non è generata “da carne e da sangue” Chi la vive non può più morire, perché è come-angelo (cioè vive con Dio), è generato da una azione generante nuova: è figlio di Dio. Gesù parla della risurrezione come vita nuova, vita altra, vita dei figli di Dio: ci impressiona la molteplicità dei termini usati da Gesù per esprimere questa realtà nuova, segno della difficoltà di trovare un linguaggio adeguato per dire una realtà che va oltre quella normale di “questo mondo”. Ciò che va sottolineato, la rivelazione che viene da Gesù, è la chiara affermazione della risurrezione, come vita nuova, la vita dei figli di Dio. Ma Gesù non ne parla per togliere il velo del mistero di un al di là che deve rimanere tale: ne parla perché è un’esperienza che egli vive già nel presente e che propone a chi crede in lui. La parola di Gesù conduce dentro il mistero che ogni uomo vive dentro di sè: l’uomo nasce in “questo mondo”, ma non si esaurisce in esso. Seguendo Gesù, credendo in lui, l’uomo entra in “quel mondo” che è il mondo di Dio, e vi entra già adesso: la parola di Gesù ci introduce nella novità della vita che egli propone, una vita in continua tensione, tra “questo” e “quel” mondo, tra ciò che nasce “dalla carne” e ciò che nasce “dall’alto”, tra il “già” e il “non ancora”, tra “il segno” e “la realtà”, tra il “matrimonio” e la “verginità”, in attesa che “passi la figura di questo mondo” e appaia la realtà di “quel mondo” che rimane per sempre. La proposta di Gesù è di vivere intensamente “questo mondo” come il terreno nel quale è deposto il seme di “quel mondo” che è bellezza, gioia, luce, amore: Dio.

Ai Sadducei e a noi, Gesù ricorda l’esperienza di Mosè perché noi la riviviamo: Dio è il Dio dei vivi e non dei morti, Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, è il mio Dio. Dio è l’ “amante della vita”, Colui che ci ama: entrare in relazione con Lui, significa iniziare una vita che diventa sempre più intensa, quanto più si abbandona a lui e che diventa eterna quando è totalmente afferrata da lui.

C’era un uomo ricco

Nella domenica XXVI del tempo ordinario leggiamo la seconda parte del cap.16 del Vangelo di Luca (Lc.16,19-31), tutto incentrato sull’uso dei beni da parte dei discepoli di Gesù. “Nessuno può servire due padroni: odierà uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà ad uno e disprezzerà l’altro”. Per Gesù è necessario fare una scelta radicale: chi sceglie Lui sarà in grado di usare i beni, non per se stesso ma nella condivisione, per dar vita ad una società fraterna, rimanendo con cuore libero capace di amare.

Così parla Gesù ai suoi discepoli e così continua a parlare Luca alla comunità cristiana, immersa nel mondo per il quale la logica continua ad essere l’opposto del Vangelo: l’interesse, il profitto, il benessere individuale. E continua a parlare alla comunità cristiana, sempre a rischio di rimanere incerta tra le due logiche o di ridurre la radicalità della parola di Gesù alla semplice moralizzazione della logica del mondo: proprio perché la comunità cristiana è chiamata a vivere nel mondo, e non separata o contro il mondo, Luca la richiama con chiarezza alla necessità della radicalità della scelta che le rende possibile essere nel mondo, senza essere del mondo.

E con insistenza Luca si rivolge a chi, nella comunità, ha la responsabilità di guidarla: a loro in particolare è chiesto un cuore libero dall’attaccamento ai beni, un cuore che sceglie Lui, per essere in grado di usare i beni, non per se stessi, ma per il bene sommo, che è la comunione tra persone che sono fratelli e sorelle.

Così, dopo che Gesù ha parlato ai discepoli (Lc.16,1), Luca dice: “ascoltavano tutte queste cose i farisei prestigiosi ‘amanti del denaro’, che prendevano in giro Gesù”. Ma chi sono questi farisei? Sono presenti tra i discepoli di Gesù ad ascoltarlo e a deriderlo (sentendo Gesù, “storcono il naso, perché il loro amore del denaro li ha portati a diventare persone di prestigio”): Luca ormai parla alla sua comunità nella quale sono presenti questi nuovi farisei, diventati onorevoli perché ricchi.

A loro rivolge le dure parole di Gesù: “Voi vi autogiustificate (vi autoassolvete, vi autoaffermate giusti), davanti agli uomini. Dio conosce i vostri cuori: quello che per gli uomini ha maggior valore, davanti a Dio è cosa spregevole”.

E ancora una volta, nel contesto di questo discorso nel quale il problema centrale è l’uso dei beni, Gesù ci rimanda all’essenziale che illumina ogni problema e guida l’uomo nella sua vita: è l’esperienza di Dio. “Dio conosce i vostri cuori”: solo un “cuore” che si lascia conoscere, amare da Dio è in grado di discernere, scegliere nella libertà, come usare le cose nell’amore verso il mondo. Un cuore rivolto a se stesso, strumentalizza tutto, soldi, affetti, solo per darsi una apparente onorabilità: questo è possibile anche nella comunità cristiana.

È possibile usare i soldi per opere di carità onde giustificare la ricerca della propria onorabilità: anche questo è idolatria raffinata. “Dio conosce i vostri cuori”: per Gesù l’essenziale è l’esperienza di Dio, per il quale ciò che conta per gli uomini non ha nessun valore.

“Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote…” (Lc.1,46-55): nel canto di Maria, Luca ha già anticipato la logica di Dio che capovolge quella umana.

“Un uomo era ricco…” (Lc.16,19ss.): per i “farisei” presenti nella comunità, Luca narra una parabola nella quale Gesù li richiama alla logica capovolgente di Dio, che abbassa i ricchi e innalza i poveri. È una parabola nella quale l’arte narrativa di Luca si manifesta interamente: egli è un abile descrittore di personaggi, di situazioni, di luoghi, attraverso i quali trasmette il suo messaggio.

Qui Luca dice: “Un uomo era ricco”: non ha nome ma è ricco, la sua ricchezza qualifica la sua umanità, ha un posto di onore nella società, vive la sua bella vita, mostrandola.

“Un povero di nome Lazzaro (“Dio viene in aiuto”)…”: è “povero” ma ha un nome. La sua umanità non è qualificata da ciò che possiede, dalle vesti con cui si maschera, la sua felicità non è ricercata nel fare festini: non ha niente, è un escluso, rifiutato, solo i cani leccano le sue piaghe. È “povero”, è “un uomo”: ha un nome.

Gesù sta parlando ai Farisei (quelli della comunità di Luca): ma che cosa è l’ “uomo”, l’uomo “vero”? È l’uomo “ricco” che osserva le leggi, “rispettabile”, mascherato nelle sue vesti di porpora e di lino finissimo, o è l’uomo povero, debole, non mascherato…? È l’uomo che con la propria ricchezza si autocostruisce o è l’uomo che sperimenta fin in fondo la propria impotente fragilità?

I Farisei (e noi?) pensano che l’uomo che vale sia quello che “riesce”, ritengono che Dio sia con l’uomo che osserva le leggi, che la ricchezza sia un premio con cui Dio ricompensa chi è fedele. E pensano che la povertà sia un castigo per l’uomo peccatore. Pensano a Dio come un freddo ragioniere che premia i buoni e castiga i cattivi: il ricco è “uno” buono e il povero è “uno” cattivo.
Ma Dio è veramente così? E quale l’uomo vero?

Continua la parabola: “Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo…Morì anche il ricco e fu sepolto”. Tutta la logica è sconvolta: Luca il narratore crea una storia sorprendente, inserendosi nella concezione giudaica dell’al di là, rivela la novità della logica del Dio di Gesù che dà il senso vero anche dell’uomo.

Il povero è innalzato e il ricco abbassato: Dio viene in aiuto (“Lazzaro”) al povero. Dio è l’Amore che è nell’uomo debole, che si abbassa in chi non si innalza, in chi non si fa il costruttore della propria vita.

Parlando dell’al di là, Luca, in realtà, parla ai suoi lettori per convincerli ad entrare nell’esperienza del Dio che ama gratuitamente l’uomo che non maschera la propria povertà.

Il Padre Abramo all’uomo “ricco” che lo implora perché mandi Lazzaro a portargli un goccio d’acqua dice: “Figlio, ricorda: tu hai già preso i tuoi beni nella tua vita, mentre Lazzaro i suoi mali”.

“Ricorda”: è importante “fare memoria” dei propri gesti, delle proprie scelte, tener vivo il senso delle proprie scelte che hanno conseguenze. “Tu hai preso i ‘tuoi’ beni nella ‘tua’ vita”: tu hai fatto di te stesso il padrone della tua vita. “Lazzaro i mali”: il povero vivendo la sua tragicità, non si è mascherato da santo, da potente, da felice, da ricco; ha lasciato, solo per il fatto di essere “povero” che il mistero dell’Amore di Dio lo avvolgesse. Chi è dunque l’uomo? È la creatura fragile che Dio ama come un figlio. E Dio è un Padre che viene in aiuto al figlio povero che non si veste da ricco.

E Gesù invita i “Farisei” presenti nella sua comunità all’ascolto di Mosè e dei Profeti, testimoni di un Dio che “ascolta il grido del suo popolo e discende per liberarlo”.

E con amarezza li richiama (richiama noi) a non lasciare inascoltata la voce di Colui che è risorto dai morti: Gesù, che si è fatto povero, è disceso sino alla morte di Croce, ha sperimentato fino in fondo il limite umano, è risuscitato perché il Padre non lo ha abbandonato, ma è stata la sua forza, la sua vita, il suo Amore.

Dio solo è la ricchezza dell’uomo debole: solo Dio, il suo Amore, è il bene dell’uomo. Gesù ne è il testimone fedele: abbiamo il coraggio di crederlo e di viverlo?

La pietra del monaco

Un uomo uscì correndo dalla sua casa, alla vista di un monaco che attraversava il suo villaggio, lo afferrò per il collo della tonaca: “Dammela! Dammi la pietra”. Il monaco: “Di quale pietra stai parlando?”. E l’uomo: “Ieri notte Dio mi è apparso in sogno… un uomo passerà per il tuo villaggio a mezzogiorno domani. Se ti darà la pietra che ha nella sua sacca sarai l’uomo più ricco del mondo. Quindi dammi la pietra”. Il monaco rovistò nella sua sacca e ne estrasse un diamante enorme, il diamante più grande del mondo. Allora: “È questa la pietra che vuoi? È grossa come un pugno; l’ho trovata nella foresta; prendila, è tua!”. L’uomo gli strappò la pietra dalle mani e corse a casa. Quella notte però non riuscì a chiudere occhio. Al mattino, trovò dove il monaco dormiva sotto un albero frondoso, lo svegliò e gli disse: “Riprenditi la pietra, ma dammi la ricchezza che ti permette di dar via un diamante come questo”.